Concerto inaugurale
Sabato 16 settembre 2023, ore 17
Auditorium dell’Università degli Studi della Tuscia
F. Schubert: Ouverture in stile italiano
F. Chopin: Concerto per pianoforte e orchestra n.2 in fa minore op. 21
F. Mendelssohn: Sinfonia n.4 in la maggiore op.40 "Italiana"
Roma Tre Orchestra
Pietro Borgonovo, direttore
Sandro De Palma, pianoforte
Viaggiatori, viandanti e sognatori
César Franck (1822-1890)
Preludio, Fuga e Variazione op. 18 per pianoforte
Andantino. Cantabile (si minore)
Allegretto ma non troppo (si minore)
Versione per pianoforte
Sandro De Palma, pianoforte
Terzo dei Sei Pezzi per organo, Prélude, Fugue et Variation sarebbe stato inizialmente concepito nella versione per pianoforte e harmonium, pubblicata nello stesso 1868. La versione per organo è dedicata a Saint-Saëns, allora organista della chiesa della Madeleine. Con la sua forma tripartita, quest’opera prefigura i grandi trittici per pianoforte degli anni Ottanta (Prélude, Choral et Fugue e Prélude, Aria et Final). Al tradizionale dittico “preludio e fuga” Frank aggiunge un terzo movimento, una Variazione contrappuntistica del Preludio, che costituisce il culmine espressivo della partitura. Con il regolare scorrimento del suo ritmo cullante di 9/8, il Preludio (Andantino), in si minore, ricorda lo stile di certi pezzi di Bach. Al candido tema iniziale, così malinconico nella sua triplice iterazione, risponde un secondo tema, più attivo e modulante, che conduce a una ripresa abbreviata del primo tema alla dominante (fa diesis minore). Una breve transizione nello stile di un corale (Lent) riporta al si minore e annuncia il soggetto della Fuga (Allegretto ma non troppo), in 3/4 e sempre cantando, le cui sinuosità e i cui mobili intervalli ricordano il Preludio. La Variazione si lega alla Fuga su un pedale di dominante, con fluidi arabeschi di semicrome ai quali si sovrappone presto il Preludio, quasi identico alla sua presentazione iniziale. In virtù del fascino e dell’emozione contenuta della sua ispirazione melodica, Prélude, Fugue et Variation ha sempre riscosso il favore del pubblico ed è stato oggetto di varie trascrizioni per pianoforte, in particolare di Harold Bauer e di Ignaz Friedman.
Frédéric Chopin
Concerto in fa minore n.2 op 21 per pianoforte e orchestra
Maestoso
Larghetto
Il 17 gennaio 1880 alla Société nationale de musique c’era un’atmosfera di grande attesa: il Quartetto Marsick e Camille Saint-Saëns al pianoforte avrebbero eseguito per la prima volta il Quintetto in fa minore di César Franck dedicato proprio a Saint-Saëns.
Durante l’esecuzione però,come riferiscono testimoni oculari, Saint-Saëns era sempre più agitato e furioso, come se trovasse nella musica dei messaggi nascosti che non aveva notato nelle prove, prove alle quali aveva presenziato l’autore. Alla fine rifiutò di stringere la mano a Franck e uscì di scena in maniera precipitosa, lasciando la partitura aperta sul pianoforte - un’offesa plateale. Forse i dettagli della vicenda sono stati romanzati ed è possibile che a Saint-Saëns semplicemente non fosse piaciuta la musica, ma il brano emotivamente intenso seminò lo scompiglio nei circoli musicali parigini; anche Liszt lo definì “parossistico” e non piacque nemmeno a Debussy; Saint-Saëns non solo non lo eseguì mai più, ma ne sconsigliò vivamente l’esecuzione in pubblico. Reazioni senz’altro esagerate considerato che il Quintetto è un capolavoro assoluto. E allora? Allora …. cherchez la femme!
La femme in questione s’incarna in una giovane allieva privata di organo di Franck, Augusta Holmès, organista e compositrice, donna molto sensuale che cominciava a godere di una certa popolarità nei circoli sofisticati della società parigina.
Anche se Franck ammirava il suo indubbio talento musicale e artistico, semplicemente non poteva ignorare “le sue belle caratteristiche audaci, i capelli dorati abbondanti e i seni belli di cui era giustamente orgogliosa”. Aveva anche ammesso “Suscita in me desideri tutt’altro che spirituali” e Madame Félicité Saillot Desmousseaux, la moglie di Franck, dopo l’esecuzione del Quintetto criticò ferocemente il marito e la sua “studentessa impura e seducente”.
Ma anche Saint-Saëns era innamorato della giovane Augusta tanto di chiederne varie volte la mano senza successo e forse per questo, cogliendo il messaggio del Quintetto, si arrabbiò ferocemente. Persino il direttore del Conservatorio, Nicolas Rimskij-Korsakov non fu insensibile alle grazie della giovane studentessa.
Ma al di là delle vicende aneddotiche il Quintetto di Franck colpisce soprattutto per la sua potenza sonora ed espressiva, in parte legata all’esperienza di Franck come organista, oltre che per l’ampiezza della sua architettura, in cui si sviluppa un procedimento tipico della scrittura di questo compositore: la forma ciclica, principio unificatore dell’opera. Il primo movimento inizia con una introduzione al tema di rara intensità esposto dal primo violino, sostenuto dagli accordi tesi degli altri archi, cui risponde, come un’improvvisazione, un dolce intervento del pianoforte in terzine. A partire dal dialogo tra questi elementi, il linguaggio si evolve verso un appassionato cromatismo, pervaso da ritmi affannati e da effetti di accelerazione del tempo.
Il Lento è un’ampia elegia, basata su una melodia che sembra infinita. Al termine dell’esposizione, si assiste a un furtivo ritorno del tema ciclico esposto nel primo movimento.
Il terso movimento, Allegro non troppo, ha inizio con un fremito degli archi, i quali espongono un motivo lancinante accompagnato da accordi misteriosi nel registro grave del pianoforte, da cui emerge, a poco a poco, il primo tema di questa forma sonata. È la frase ciclica che si è già udita due volte, la quale svolge poi il ruolo del secondo tema, in forma ritmica variata. Lo sviluppo sovrappone questi due elementi, e al termine di una frenetica coda, il brano si conclude con un esaltante e potente unisono.
Antonin Dvórak
Serenata per archi in mi maggiore op.22
Moderato
Minuetto. Allegro con moto - Trio
Scherzo. Vivace
Larghetto
Finale. Allegro vivace
I solisti aquilani, archi
Una costante dell'esistenza di Dvoràk fu l'attenzione da lui dedicata alla musica da camera, non solamente sotto il profilo inventivo ma anche nella prospettiva nazionalistica ed ideologica. A differenza però di Smetana, che non tralasciava occasione per proclamarsi "avversario intemerato" delle consuetudini sociali dell'impero asburgico, Dvoràk soleva considerare il proprio ruolo nella comunità civile dell'epoca in una dimensione del tutto autonoma, a sé stante, conferendo il maggior risalto ad una specifica concezione dello stile, fìnanco del linguaggio. Nel senso cioè di privilegiare una graduale emancipazione degli schemi formali della tradizione classica, che allora nei paesi dell'Europa centrale coincidevano con il retaggio estetico e lessicale tedesco, oltre a coltivare l'ambizione di dar la precedenza a stilemi e nessi ritmici riferibili al mondo slavo e al suo folclore.
Soltanto nella produzione giovanile fu avvertito senza mezzi termini da Dvoràk l'influsso del classicismo viennese, perché ben presto egli sentì il crescente fascino del melos popolare boemo, spiccatamente nell'effusione melodica delle canzoni paesane e nella loro peculiare scansione ritmica, seppur in una misura sovente stilizzata. E quei caratteri che agevolmente contraddistinguono partiture orchestrali come le Danze slave, alcune Ouvertures, certe Sinfonie, i Poemi Sinfonici, gran parte delle pagine corali, vocali e strumentali ecc., per non parlare di numerosi episodi rinvenibili all'interno dell'opera teatrale, risultano altrettanto percepibili nella produzione da camera - in cui si annoverano, in ordine crescente delle parti nell'organico strumentale, due Sonate per violino e pianoforte, quattro Trii per pianoforte e archi, due Trii per archi, due Quartetti per pianoforte e archi oltre alle Bagatelle, dieci Quartetti per archi oltre a Cipressi, due Quintetti per pianoforte e archi, tre Quintetti per archi, un Sestetto per archi. Complessivamente ventisette composizioni, regolarmente pubblicate, a cui si aggiungono alcune versioni alternative o varianti di movimenti isolati.
Secondo il più scrupoloso biografo di Dvoràk, Otakar Sourek, alla musica da camera propriamente detta, sono chiaramente assimilabili le due Serenate, in mi maggiore per archi e in re minore per fiati, rispettivamente op. 22 e op. 44, "per varie ragioni, non soltanto d'ordine tecnico: il musicista era consapevole della tradizione d'origine settecentesca della 'serenata', d'una composizione cioè pluripartita nell'articolazione, formalmente contraddistinta da elementi derivati dalla Suite e dalla Sonata, di carattere più leggero e libero della Sinfonia. Ed era egualmente al corrente del fatto che la fioritura di questo genere creativo era dipesa dalla disponibilità di strumentisti boemi, sia tra gli archi sia tra i fiati, arruolatisi nelle orchestre arcivescovili o principesche mitteleuropee" (1956).
La Serenata in mi maggiore per orchestra d'archi ebbe una genesi molto veloce, con stesura tracciata tra il 3 e il 14 maggio 1875, all'avvio d'un anno assai felice per Dvoràk: da poco gli era nato il primo figlio, Otakar; nel febbraio, in aggiunta alle limitate entrate finanziarie d'insegnante privato e di organista a Sant'Adalberto, l'arrivo di 400 gulden, come premio per alcune musiche vincitrici d'un concorso di composizione a Praga, sembrò cambiargli la vita. All'inizio dell'autunno presero l'avvio i preparafivi per la première della Serenata a Vienna sotto la direzione di Hans Richter, ma quel progetto non ebbe un esito positivo. E questa composizione fu conosciuta la prima volta a Praga il 10 dicembre 1876 sotto la guida di Adolf Ciech. La prima viennese si realizzò soltanto il 24 febbraio 1884 con Hermann Kretschmann sul podio. Nel frattempo l'editore praghese Stary aveva dato alle stampe la versione d'autore per due pianoforti nel 1877 mentre la stesura originaria per archi vide la luce nel 1879 a Berlino da Bote & Bock.
Tra i caratteri più peculiari di questa Serenata si coglie l'intento di Dvoràk di tornare agli ideali classici che l'avevano tanto coinvolto nella prima giovinezza, inducendolo quindi a prender le distanze da certi influssi wagneriani che avevano informato le opere Alfred (1870) e Re e carbonaio (1871), causandone probabilmente l'infausto destino. Già la revisione di questo secondo titolo teatrale, realizzata nell'autunno 1874, aveva praticamente preannunciato la sua svolta creativa, orientandola a stilemi popolareggianti, ove cominciano a salire in cattedra una calda naturalezza della vena melodica, una mutevole vaghezza della tavolozza armonica e, specialmente, l'armoniosa eleganza della scrittura nonché il prevalere dell'ispirazione lirica d'ascendenza folclorica. Tra i primi a manifestare a Dvoràk la loro simpatia furono Brahms e l'influente critico Hanslick, ai quali piacquero, sin dal primo ascolto, la sobria misura del disegno architettonico e la spontanea esuberanza dell'inventiva di questo lavoro.
La Serenata per orchestra d'archi si articola in cinque movimenti ed inizia con il Moderato in mi maggiore in 4/4, ove la prima idea è subito proposta dai violini primi, venendo poi ripetuta nello stretto gioco strumentale intessuto tra i secondi violini e i violoncelli, per riapparire di lì a breve nello slancio dei violini primi, con un'effusione cantabile d'indubbia matrice popolareggiante boema. La situazione espressiva accentua la sua originalità dopo dodici battute nel ritorno in marcata evidenza del soggetto tematico principale ai secondi violini, anche perché è contrappuntata più all'acuto dalla trama strumentale dei violini primi. L'intero andamento musicale è basato sull'intreccio a imitazioni, quasi in forma canonica. Subentra una seconda sezione in sol maggiore, nettamente caratterizzata da valori puntati e segnata da un pronunciato distacco rispetto all'iniziale impronta lirica: e proprio in questo contesto si inserisce l'intensa linea espressiva dei violoncelli. Si ascolta quindi la ripresa con il ritorno dell'idea principale in un tessuto orchestrale più arricchito ove la scrittura di maggiore intensità effusiva ritrova la tonalità in mi maggiore della parte introduttiva.
Il secondo movimento, Tempo di Valse in do diesis minore in 3/4, è improntato ad un incedere assai vaporoso nella sezione iniziale, per farsi ben presto più fluido nella parte successiva, nello scorrere delle semicrome con alcune battute puntate di tensione contenuta. All'andamento tranquillo della ripresa segue il Trio ove interessante è lo spostamento enarmonico in re bemolle maggiore: una pagina di notevole estensione, di carattere meno danzante del valzer. E all'interno del Trio, in specie nella seconda parte, si avverte una tensione abbastanza drammatica che infine conduce al Tempo di Valse in modo simmetrico, per concludersi nella tonalità maggiore.
Per contrasto il terzo movimento, Scherzo - Vivace in fa maggiore, è improntato a un ritmo di danza binario. Sostanzialmente unitario è il carattere di questo tempo, pur comprendendo al suo interno tre incisi tematici differenziati nella tonalità senza però instaurare degli atteggiamenti espressivi contrapposti. La sezione finale è molto elaborata nell'incalzante suo incedere strumentale, per concludersi nel Tempo tranquillo, quasi svaporando sul materiale motivico del terzo inciso. E solamente nelle ultime sei battute si ascolta il ricupero dell'idea iniziale (stringendo).
Il quarto movimento, Larghetto in la maggiore in 2/4, costituisce il tempo più lirico dell'intera Serenata. S'impone perentoriamente all'attenzione l'estrema raffinatezza della scrittura orchestrale, permeata d'un afflato poetico trascinante e coinvolgente nella sensibilità con la quale Dvoràk fa risaltare tutte le risorse di duttile e fervida cantabilità degli archi. La struttura di questo tempo adotta lo schema A - B - A ove la sezione centrale (Un poco più mosso) risulta articolata senza eccessivi spessori di passaggio.
Il quinto, e ultimo, movimento, Finale - Allegro vivace in mi maggiore pone in risalto l'accentuata sua scansione ritmica. Nella parte centrale si individua agevolmente una doppia articolazione tematica. Ed appare molto interessante la riproposta della prima idea del movimento introduttivo di questa composizione, quasi Dvoràk avesse inteso, nel dar evidenza al ritorno ciclico, evocare un peculiare atteggiamento psicologico che riaffiora nella sua memoria. Alle misure finali del Moderato subentra, nel Presto, l'incalzante coda che porta la Serenata in mi maggiore alla rapida conclusione.
Luigi Bellinguardi